Il Vento di Ottimismo Continua a Soffiare sul Mondo

Siamo molto fortunati.
Abbiamo la fortuna di essere adulti e consapevoli, nel centro di un periodo storico che verrá ricordato per sempre.
“Arab Spring”, lo chiamano i giornali. E’ la serie di eventi nati e susseguitisi dalla prima, singola, rivolta popolare in Tunisia e che, come un castello di carte, ha travolto Egitto, Libia, Siria, Yemen, Algeria, Iran, Bahrain, Sudan; un battito di ali di farfalla che ha scatenato un inarrestabile uragano.
Ad occhiata superficiale potrebbe passare come un fenomeno riguardante soltanto il mondo arabo (seppur, converrete, indirettamente riguarda comunque tutto il resto del mondo); tuttavia ad aggiungersi a questa ondata di “cambiamento” sono giunti altri unici, storici, avvenimenti, proprio nel nostro “avanzato” occidente. Il 29 Aprile in Inghilterra si é celebrato il piú grande matrimonio della nostra generazione; il 2 maggio gli Stati Uniti hanno annunciato di avere finalmente ucciso il piú ricercato terrorista del mondo; il 18 maggio il Regno Unito – sotto forma della Regina Elisabetta – ha simbolicamente chiesto all’Irlanda di dimenticare i torti passati e voltare pagina; il 26 maggio le forze di sicurezza serbe hanno annunciato di avere catturato l’uomo accusato del piú grande genocidio d’Europa dopo la seconda guerra mondiale.

Questi eventi hanno qualcosa in comune, qualcosa che li distingue dalle altre notizie solitamente riportate dai giornali e sopratutto che li rende rari: sono buone notizie; sono percepite come tali dalla gente che le legge e questo fa aumentare l’umore, la felicitá, la voglia di vivere il presente. Personalmente, prima di questo maggio, non ricordo un’altra occasione in cui, aprendo il giornale, io possa avere detto di trovare in prima pagina una buona notizia.

Il nostro mondo sta cambiando, ma in maniera diversa rispetto al passato. Non é piú come alla caduta delle torri gemelle, quando tutto era coperto dallo spettro del terrore: stavolta non sembra esserci quel velo di incertezza, di paura, di indugio: si ha la sensazione di vivere in un posto un po’ piú sicuro, con gente un po’ piú buona, un po’ piú serena, un po’ meno pessimista.
Alcuni credono che l’uccisione di Osama Bin Laden abbia sostanzialmente concluso l’epoca del terrore cominciata l’undici settembre di dieci anni fa. Forse é cosí. Forse ora al tavolo delle decisioni, dei cambiamenti, si é seduto il mondo arabo.

Resta il fatto che il vento di ottimismo soffia anche su di noi, su tutto il mondo occidentale, e qualcosa scatena anche da noi.
Persino in realtá nazionali come l’Italia, ventennalmente aggrappata a convinzioni politiche slegate da alcun tipo di ideali piuttosto che ad interessi personali e sputtanamenti reciproci, sembra che qualcuno si sia svegliato. Non ha importanza che la sinistra abbia sconfitto la destra o meno (come se in Italia esistessero la destra e la sinistra…), che superficiali ideologie su musulmani o comunisti abbiano la meglio su mentalitá imprenditoriali ed affaristiche: quel che conta, quel che voglio credere, é che sia finita l’epoca in cui si poteva dare per scontato che un ruolo di rilevanza amministrativa autorizzasse la persona in carica a farsi i fatti propri. Per questo a quelli che dicono: “Pisapia ha vinto a Milano non perché la gente lo volesse votare ma perché ci si voleva liberare della Moratti” io rispondo “Bene, meglio, speriamo sia proprio cosí!” perché se vogliamo credere che i milanesi siano tutti imprenditori e vogliano tutti a votare per la (presunta) destra, allora acquista ancora piú valore il sacrificio che hanno fatto per liberarsi di una persona come la Moratti votando la (presunta) sinistra. Spero veramente che questo sia il messaggio che gli italiani abbiano voluto mandare, e che prendendo spunto dal vento di ottimismo si siano in qualche modo accorti che votare opportunisti, nepotisti e affaristi non conviene alla collettivitá, che abbiano preso la spinta per cambiare la propria mentalitá (in primis) e proiettarla verso le persone che elegge in carica come conseguenza. Sono un illuso? E’ un cambiamento troppo repentino per un popolo come quello italiano? Forse.
Anche un’elezione a Napoli come quella di De Magistris, dopo che per cinque anni i napoletani hanno convissuto con due figure …. archeologiche (per usare un termine morbido) come la Iervolino e Bassolino… voglio dire: se non é cambiamento questo! La Iervolino mi auguro l’abbiano riportata a Woodstock, da dove era venuta; Bassolino l’avrei messo a liberare Napoli dai rifiuti con la pinzetta dell’Allegro Chirurgo fino a che per strada non fosse rimasta neanche la carta di un Pocket Coffee.
Comunque De Magistris era Eurodeputato e comprendo chi sostiene che ha in un certo senso disatteso chi lo aveva portato in Europarlamento; ma, personalmente, ho visitato Napoli meno di due anni fa e ne sono uscito con le mani nei capelli: cari amici napoletani, senza offesa, di uno come De Magistris ne avete bisogno, ve lo cediamo volentieri, in Europarlamento ne faremo a meno. Per quanto amministrativamente sconsigliato, forse un ex-magistrato come sindaco non é proprio cosí male in una cittá che praticamente é il Far West moderno.

Per quanto riguarda il sottoscritto, in tutta questa ventata di ottimismo: osservo, leggo, ascolto, un po’ anche me la rido. Certamente resto ancorato alla mia felice isola londinese. Ma se riuscite a liberarvi anche di Berlusconi fatemi un fischio eh, magari scendo per un caffé; dopo che sará finita la quarantena ovviamente.

I Vicini di Casa

Per qualche motivo che ancora non ho capito, l’erba del vicino é sempre più verde. Quel che ho capito é che di conseguenza il vicino sta antipatico da morire.
Infatti, persino a livello privato, la persona che abita accanto a noi é inevitabilmente quella che ci detesta o che detestiamo, o almeno con la quale abbiamo avuto acerbe discussioni.

A livello nazionale la cosa si fa più grande, perché lo Stato accanto al nostro é sempre quello col quale abbiamo avuto discussioni politiche, incidenti diplomatici, sui quali abbiamo sparato un colpo o due ed altrettanti ne abbiamo ricevuti.
A volte questi rapporti decadono fino a toccare il fondo e lì restano a riposare per anni ed anni: generazioni si susseguono stanche ed imperterrite fino a lasciare figli dei figli che detestano gli Stati vicini senza nemmeno sapere perché così sia.
Così, nei rapporti personali come nei rapporti nazionali, se si vuole salvare una relazione bloccata in inamovibili ideologie, una delle due parti deve fare lo sforzo di tendere una mano e l’altra parte stringerla.

Un eccellente esempio di mano tesa é stata la visita di Stato della Regina Elisabetta in Irlanda, avvenuta questa settimana: una visita molto difficile, poiché, come appena detto, i due paesi covano rancori che risalgono al 1100 e che sono stati bilateralmente lasciati ad affondare fino ad oggi; già il fatto che la Regina sia stata il primo monarca britannico a visitare l’Irlanda dal 1921 (per l’appunto l’anno della loro indipendenza) la dice lunga.

La povera (??) Elisabetta si é dovuta trovare a fronteggiare inevitabili sorprese sgradite: una bomba piazzata da dissidenti repubblicani é stata trovata su di un autobus un giorno prima della sua visita, manifestazioni di protesta non sono mancate, ed in generale non é che gli Irlandesi apprezzino molto i monarchi, specialmente quelli rossi e blu.
Perché fare lo sforzo, dunque?

Quello che la Regina sperava di ottenere era da un lato il definitivo abbandono di ogni simpatia da parte degli irlandesi verso gruppi terroristici come l‘IRA (che tecnicamente non dovrebbe più esistere, ma in realtá esiste ancora), e dall’altro dare una spinta ai rapporti commerciali con il Regno Unito; questo specialmente per far fruttare un recente prestito di €3.8 miliardi per stabilizzare l’economia irlandese (prestito che, tra le altre cose, scadrà ben oltre il termine di mandato dell’attuale governo britannico – a buon intenditor..).

Il tentativo é stato lodevole.
Le cose che però al sottoscritto sembrano avere poco senso sono i gesti simbolici che un rappresentante delle istituzioni deve compiere per portare i cittadini delle nazioni in causa a cambiare i sentimenti verso altri paesi. Nel corso del suo viaggio, la regina ha deposto una corona in memoria dei soldati irlandesi caduti combattendo per l’indipendenza dell’Irlanda; poi ne ha deposta un’altra in memoria dei soldati irlandesi che hanno combattuto nell’esercito britannico. Nessuno ha fatto notare che i secondi hanno combattuto i primi.
Inoltre la Regina si é certamente badata dal deporre una corona sulla tomba degli esponenti dell’IRA – eh, perché quelli sono terroristi; nessuno ha fatto notare che combattono per gli stessi motivi per cui sono morti i soldati sui quali ha deposto la prima corona (anche se effettivamente sarebbe stato altrettanto incoerente deporla: lei é la prima persona che l’IRA vorrebbe fare fuori).

Insomma, questi sono i balletti diplomatici che rivelano le falle di una psicologia umana che nutre le proprie sicurezze attorno a linee immaginarie disegnate su di una mappa. In questo senso non ci sarà mai un’uscita: in condizioni di benessere persone fisicamente vicine tendono ad andare meno d’accordo (alcuni collegano l’inversa proporzionalità della durata dei matrimoni con l’aumento del benessere domestico). A volte per ravvicinare le persone c’é bisogno di una minaccia collettiva che venga da lontano, magari anche posticcia – in questo caso ne sa qualcosa il partito politico italiano della Lega Nord, che attorno a questo meccanismo ci ha fatto venti anni di successi – ma questo non é sempre facile, specialmente ove la gente é istruita ed informata, e semplicemente si rifiuta di andare d’accordo. Molti Irlandesi hanno accettato trent’anni di attentati fuori dalla porta di casa per il fatto che chi saltava per aria erano britannici e non irlandesi. I britannici ci hanno messo cent’anni a chiedere scusa agli irlandesi per avere rifiutato l’indipendenza.
Quindi ne resta un quadro un po’ tetro e deprimente. Certo i rapporti tra Regno Unito ed Irlanda si sono rafforzati: i primi lentamente dimenticano i rancori del passato, i secondi aiutano i primi ad uscire dalla crisi guardando con ansia a nuovi futuri scambi commerciali; il peggio é nel passato, e abbiamo molti motivi per rasserenarci. Ma la speranza é sempre che un giorno, invece di trovarsi nelle piazze a bruciare bandiere, la gente possa cominciare a farlo con qualcosa di molto più soddisfacente: le mappe politiche.

Il Fantastico Barbecue Estivo

Giunge la domenica e sono invitato al mio primo barbecue dell’anno, a casa di amici.
Da questi esigui dati dovrebbe essere già ovvio che, come per ogni evento sociale del genere, la “casa” in questione si deve per forza trovare in un luogo di Londra polarmente opposto a casa mia, e perfettamente studiato con i lavori di manutenzione della Tube di modo che le linee chiuse per lavori devono essere esattamente quelle che dovrei prendere io, costringendomi così ad un romantico viaggio alternativo che risulterà per qualche curiosissima coincidenza il più lungo e periglioso possibile, passando per cittadine rustiche e caratteristiche come Stockwell e Brixton, che io amo proprio tanto, quasi da morire (proprio nel senso che rischi la vita a passarci).
Tuttavia trattandosi di un barbecue a casa di una cara amica (cara=lasciata dal ragazzo venerdì sera), e considerati due giorni spesi a preparare una cazzo di New York Cheesecake per la cui preparazione sono anche andato a Tesco di Canada Water per comprare la Créme Fraiche, direi che la mia tenacia mi ha consigliato di prevalere sugli ostacoli infrastrutturali tipici del weekend.

“Abbiamo un sacco di hamburgers e salsicce. Se vuoi porta qualche rinfresco” era l’ultimo messaggio ricevuto; così mi fermo ad un supermercatino locale – il classico 24 ore tipo Apu dei Simpsons – a prendere il pane per gli hamburgers, succhi di frutta, patatine, ed un sacco di altra roba.
Carico come un mulo da soma, con tre borse della spesa, riesco ad immettermi nuovamente su di un tratto funzionante della District Line all’altezza di Westminster, dal quale riesco a raggiungere la mia destinazione Putney Bridge tramite Tube, cambiando ovviamente quattro treni (diciamo che di domenica é più facile trovare un treno per Hogwarts che non un diretto Westminster – Wimbledon).
E quindi eccomi finalmente lì: previsto a destinazione per le ore 13 – suonare il campanello alle ore 14:30. Un lungo viaggio, mi dico, ma almeno la festa può cominciare.
“Vuoi mettere via la giacca?” mi chiede la mia amica. “Certo,” rispondo, “l’ho infilata nel mio zaino perché faceva caldo”. “Ok,” mi risponde lei guardandomi un po’ allibita, “…mi dai lo zaino?”.
Ma tu guarda – esclamo tra me e me – non ho con me il mio zaino, il quale ovviamente conteneva giacca, portafogli, telefono, carta di credito, lettore MP3, qualche oggetto imbarazzante per un ragazzo di trent’anni, e sopratutto il Nintendo DS — Evviva.

Indeciso se abbandonarmi ai bagordi o alla disperazione, lascio le borse e ritorno – con l’andamento di un moribondo disperato – alla stazione di Putney Bridge, dove il supervisore della stazione ovviamente non sa di cosa io stia parlando; trattiene un grugnito tra i denti prima di ritornare nel suo ufficio che assomiglia alla tana del Gruffalo. Disperato come per la perdita di un parente caro, comincio a vagabondare lungo la District Line a ritroso, fino a che finisco ad Earls Court, dove improvvisamente mi sovviene di essermi trattenuto su di panchina per qualche minuto mentre aspettavo un treno, un’ora prima circa.
Mi sento un po’ come l’uomo che non ha niente da perdere: suono il campanello del supervisore, il quale mi fa entrare nel suo ufficio. E’ un uomo immenso, é la mia versione immaginaria del capitano Nemo di ‘Ventimila Leghe sotto i mari’; ha anche la blusa blu, il cappello ed i baffetti da sparviero.
Immediatamente mi prostro ai suoi piedi: “Signor Nemo, sono disperato: ho perso il mio zaino e non so dove sia”. “Calma, calma, ” mi dice lui, “di che colore era?”. “Era blu” rispondo. “Cosa conteneva?” mi chiede. “Conteneva giacca, portafogli, telefono, carta di credito, lettore MP3, qualche oggetto imbarazzante per un ragazzo di trent’anni, e sopratutto il Nintendo DS!”. Comincia a sorridere – non capisco se per il contenuto o per la mia espressione disperata. Dopo qualche secondo di silenzio domando “…mi può aiutare? Devo averlo lasciato sulla District Line”. Mi guarda e sorride “Abbiamo trovato il suo zaino”.
“Oh, gioia e gaudio, ma non me lo poteva dire prima? Dov’é? Me lo può dare?”.
“Non é così semplice – prima c’é la procedura“.

Vengo così a scoprire della “procedura”.
Innanzitutto il mio zaino é chiuso a chiave in uno sportello metallico. Devo aprire lo sportello da solo, posare lo zaino su di un tavolo e svuotarne il contenuto lentamente (mancavano solo gli impiegati che mettevano il colapasta sulla testa), devo controllare che il contenuto sia integro ed intoccato, devo poggiare il telefono sul tavolo e chiamarlo da un altro numero per farlo suonare; una volta fatto questo, devo compilare due moduli dichiarando che i miei beni personali erano come quando li avevo smarriti, devo lasciare il mio indirizzo, il mio contatto telefonico, firmare qualche carta; infine devo sentirmi la ramanzina del signor Nemo che come un nonno apprensivo mi dice che devo stare più attento, che ho fatto fare tardi ad un treno, che mandato in panico una stazione per colpa della mia disattenzione.
Ha ragione e concordo con lui: sono proprio mortificato e non so come sia potuto succedere, però sono troppo contento per avere ritrovato il mio zaino, e per una volta devo dire di avere rivalutato la professionalità del Transport for London, che si é dimostrato composto da gente umana e non soltanto da Gruffali e vampiri notturni.

Indossando l’espressione della gioia ritorno al party – ovviamente cambiando ancora due treni – ed arrivo alla festa a Putney Bridge alle ore 17:00 circa.
“Oh, hai trovato il tuo zaino?” mi dice la mia amica, “ma che splendida notizia! Non so se ti é arrivato il nostro sms dove ti dicevamo di comprare un paio di hamburger per te sulla via del ritorno perché siamo rimasti senza più niente da mangiare – é finita anche la cheesecake.”
“Oh, ma che peccato,” rispondo, “ma sai una cosa? Non fa niente, non ho più fame: l’importante é il piacere di vedersi nuovamente tra amici”.
“Oh, grazie!” mi risponde.
“Oh — credevi mi riferissi a te? Scusa, intendevo il mio Nintendo DS”.

Scene da un Matrimonio

Il 29 aprile 2011 si é celebrato il matrimonio piú chiacchierato del decennio: quello tra il Principe William e Catherine Middleton.
Il carrozzone mediatico é stato una delizia per gli occhi e per le orecchie, un’assoluta orgia di frizzi e lazzi da parlarne per anni a venire, ed in questo senso ne sono rimasto molto compiaciuto. Da un altro lato sono rimasto invece stupito, o forse addirittura deluso, dalla mancanza dei giornali britannici di cogliere l’occasione per sollevare editoriali e riflessioni laterali come sono soliti fare: invece il nulla, come se fossero tutti caduti in catalessi.

D’accordo, certamente ci siamo tutti goduti lo show, abbiamo fatto del nostro peggio nel criticare Victoria Beckham e la sua espressione facciale da androide di Guerre Stellari, Elton John che a pranzo é stato probabilmente scambiato per il tacchino, il culo di Pippa che se ottiene qualche altro fan in Facebook puó aprire la pagina business, il cappello di Beatrice che é stato ritoccato tante volte quante licenze di Photoshop esistono al mondo; ma di queste cose ne hanno anche parlato tutti.

Ho invece trovato monotono e persistente che ogni singolo giornale d’informazione abbia trattato la vicenda in pompa magna e con prime pagine l’una identica all’altra, parlando sempre del vestito di Kate, del menu del pranzo reale, dei vestiti degli ospiti, senza paura di causare noia nei lettori royalisti o disappunto in quelli repubblicani, senza paura di offuscare notizie come la guerra in Libia, le rivolte in Siria, la crisi nucleare in Giappone: insomma si puó dire che per una settimana i giornali britannici abbiano fatto il lavoro dei tabloid, svergognatamente mettendo in primo piano notizie scanzonate a discapito di quelle serie (insomma come in Italia in un giorno di informazione normale).

Possibile che, in tutto questo parlare, nessuno abbia voluto riflettere sulla questione dell’utilitá di una monarchia nel 2011, che abbia puntato il dito sulle spese astronomiche per organizzare l’evento, che abbia fatto notare i miliardi di entrate mancate nell’ aver scelto di fermare il paese per un giorno intero (la crisi c’é o non c’é?); le uniche voci britanniche che ho sentito cantare fuori dal coro sono un editoriale dell’Economist – editoriale di matrice poco economica e molto repubblicana, invero – ed uno del Guardian, dove la signorina Polly Toynbee si sbottona per criticare la “societá britannica fanfarona” salvo poi sentirsi dare della “obesa piagnucolona” nei commenti da gente comune che dice: “Per una volta che la nostra societá é unita e funziona e tutti ci invidiano, dovremmo soltanto festeggiare“; magari il commento é a ragione, ma spesso i lettori non capiscono che il lavoro dei giornalisti é darci notizie che non vogliamo sentire.

Posso anche sforzarmi di capire la situazione nel Regno Unito dove, secondo i sondaggi, soltanto il 20% dei britannici si dichiara contrario alla monarchia; inoltre c’é il fattore “fiaba” che é emotivamente irresistibile: da un lato c’é il principe triste la cui amata madre é morta tragicamente, dall’altra una ragazza qualunque (qualunque ma sempre gnocca) che viene salvata da una vita di qualunquismo e birre al pub per entrare nella sfarzosa vita a palazzo. Ma  la cosa forse piú sorprendente é che quest’ approccio mediatico é stato assunto  da praticamente tutti i giornali democratici occidentali, non soltanto da quelli britannici. Una mia ex-collega che vive a Parigi mi ha descritto un quadro quasi identico dalle sue parti, con il popolo tutto in atteggiamenti di morbosa curiositá, quasi di devozione, verso l’evento, e stiamo parlando dei francesi! Capisco l’attenzione degli americani – che poveracci é giá bello che abbiano una cattedrale, figuriamoci una monarchia – ma i francesi! Mi viene da dire che se “se non li decapitavate tutti magari qualche monarca vi rimaneva pure a voi, qua o lá”, ma lasciamo perdere.

La stessa curiositá é stata comunque dimostrata anche dalle altre parti del mondo: secondo i dati, infatti, due miliardi di persone avrebbero guardato il matrimonio in TV o via internet. Due miliardi: si tratta di un terzo della popolazione mondiale.  Il messaggio che recepisco sembra essere: “La monarchia ci piace, ma é meglio se non é in casa nostra”; e forse é proprio cosí: se si considera che nel mondo ci sono 200 stati, e che, di 44 monarchie, 16 fanno capo alla Regina Elisabetta, beh, ne rimangono proprio pochine.
Insomma nessuno vuole la monarchia, ove questa era storicamente presente é sempre stata sistematicamente rimossa: tutti sono consapevoli che un monarca é l’opposto della democrazia, tutti riescono a capire quanto sia sbagliato che il potere esecutivo sia tenuto in mano da una singola famiglia (ne sappiamo qualcosa in Italia dove il mero potere economico si divide tra un circolo di famiglie: Berlusconi, Agnelli, Della Valle, Moratti, etc), e come conseguenza tutti si lasciano andare in adorazione per i principini altrui ma allo stesso tempo tutti sono consapevoli che in casa propria una simile scena non accadrá mai, né mai sará voluta.

Peró nel Regno Unito la situazione é in qualche modo diversa: forse, strappata di ogni potere effettivo, tenuta in gabbia come una canarino esotico al quale bisogna soltanto dare da mangiare, la monarchia riesce a portare qualcosa di buono: dá quel senso di vicinanza umana che una fredda democrazia che cambia faccia ad ogni elezione non é in grado di fornire, agisce come una seconda famiglia, come qualcosa che “sará sempre lí” e fornisce sicurezza, come un guanto che avvolge lo Stato e gli dá una faccia, gli dá grinta e carattere, unisce le persone nei momenti belli e in quelli brutti. Chiunque, quel giorno, in un affollatissimo Mall ricoperto da centinaia di Union Jacks sventolanti, si sarebbe sentito britannico ed emotivamente vicino alla coppia, parte di una famiglia “di tutti”.
E non é un caso che il governo abbia concesso un giorno di festa nazionale, che le speranze e le scommesse per la ripresa economica siano state poste attorno a quel singolo giorno: l’economia é difatti manipolata dall’umore delle persone, i governi ne sono consapevoli, e venerdí scorso con quel matrimonio i britannici hanno ritrovato tanto, tanto ottimismo.

Intervista col Disadattato

Pubblico di seguito il testo della mia intervista con Andrea Muzzarelli di “Italians in Fuga “.


Ciao Matteo, ci potresti spiegare perché ti definisci un “misfit”, un disadattato?

Ho cominciato a definirmi un “misfit” attorno ai 22-24 anni. Al termine di un’adolescenza passata ad assorbire passivamente la società nella quale vivevo ho realizzato quali erano i miei veri e personali interessi, i miei ideali e le mie aspirazioni: mi sono reso conto che non avevano niente a che fare con la cultura italiana nella quale ero nato! Mi sono scoperto fortemente contrario ad alcuni aspetti di questa cultura che invece sembrano essere generalmente bene accetti: dalla corruzione radicata (dai livelli più alti della politica a quelli più bassi di una locale amministrazione) al nepotismo come selezione naturale per un importante posto di lavoro. Dall’evasione fiscale alle quotidiane interferenze politiche da parte di uno Stato religioso (nonché estero) nei confronti di uno Stato che si definisce laico. Sino all’imbonimento generale dei cittadini, felici di barattare la seria informazione per un paio di natiche rosa della velina di turno.

Dopo avere maturato il mio disappunto, ho deciso che non avrei voluto passare la vita né a zittire la mia coscienza, né tantomeno a combattere qualcosa che la maggior parte dei miei connazionali accettava. Così mi sono definito un “disadattato” e mi sono orientato verso altri paesi in cerca di una mentalità diversa.

Che valenza ha per te il viaggio? È più una fuga o una scoperta?

Viaggiare è a mio parere una grandissima possibilità che ci viene concessa per permetterci di scoprire nuovi luoghi, nuove culture, nuove mentalità e nuove idee. Personalmente, viaggio con lo scopo di scoprire nuove culture, per provare quella sensazione di fascino verso il “nuovo” che un po’ spaventa e un po’ scalda il cuore. L’incontro con culture e mentalità nuove è qualcosa che fa scattare in me una sincera autoanalisi.

Ci sono state ovviamente un paio di occasioni nelle quali viaggiare ha avuto per me un ambivalente significato di fuga e di scoperta: la prima è stata a New York nel 2005, la seconda a Londra nel 2006.

Tra i luoghi che hai visitato, ce n’è uno che ti ha colpito in particolare?

Il Giappone è un paese che ho marchiato a fuoco nella mente e nel cuore. Soprattutto per l’incredibile contrasto tra la realtà della campagna – dove templi buddhisti e scintoisti sono incorniciati dagli incantevoli colori della natura – e l’eclettica vita notturna di città come Tokyo o Osaka. La società estremamente nazionalista spinge i cittadini a nutrire un senso di grande rispetto verso lo Stato e i propri connazionali, e questo proietta spesso all’estero l’immagine dei giapponesi come manipolati dallo Stato, quasi sottomessi. In realtà si tratta di un popolo incredibilmente unito e di grande cuore, e questo in altre società non viene spesso compreso.

Parliamo del tuo primo soggiorno a New York, che hai descritto come una bellissima esperienza. Che cosa ti hanno dato quei tre mesi nella Grande Mela?

New York è una città splendida, che ogni cittadino appartenente alla cultura “occidentale” sente naturalmente come casa propria per via del suo fattore “glamour” – cioè per tutte le sue storie d’amore, avventure di supereroi e racconti gangster che abbiamo vissuto sui nostri schermi TV da quando siamo nati. Sono “fuggito” nella Grande Mela nel mio primo momento di “rifiuto” verso la società italiana, abbandonando il mio contratto di lavoro fisso e contro i suggerimenti delle persone a me care. Là ho trovato quel forte senso di libertà e di possibilismo di cui avevo bisogno.

Ho lavorato per tre mesi in un ristorante, dalle otto alle dodici ore al giorno: è stata molto dura, ma la sensazione di appartenere a una società “libera”, di vivere il famigerato American Dream, mi ha fatto tirare fuori una grinta che non sapevo di possedere. Ho vissuto ogni giorno al massimo, dal momento in cui mi svegliavo la mattina fino al momento in cui crollavo esausto sul letto la sera. Quando il fatidico giorno del rientro in Italia è giunto, ho pianto tanto.

E una volta rientrato, sei caduto in uno stato che hai descritto come “passivo-aggressivo”…

Aver lavorato per tre mesi in una società dove per la prima volta mi ero sentito a mio agio, con amici dalle esperienze simili alla mia e in una città che amavo, è qualcosa che non è stato facile accettare di perdere. Tornare nella società italiana, con la sua mentalità a me così ostile e le sue contraddizioni, mi ha mandato in stato confusionale. Da un lato le persone a me care mi spingevano a cercare un nuovo lavoro e a indossare nuovamente la vita che mi ero lasciato alle spalle. Dall’altro c’era il mio disagio, che mi diceva che quella vita non la volevo più.

Quando alla fine hai deciso di ripartire, hai scelto Londra. Perché proprio questa città e non, magari, di nuovo New York?

Una volta compreso che il mio viaggio a New York era stata l’espressione non di un temporaneo desiderio di fuga, ma di un sincero desiderio di vivere in una società diversa da quella italiana, ho preso la decisione di partire nuovamente.

Se avessi potuto, sarei tornato immediatamente nella Grande Mela. Tuttavia, la procedura e i prerequisiti per ottenere un visto di tipo lavorativo mi hanno costretto ad abbandonare l’idea. Ho così deciso di sfruttare il vantaggio di essere un cittadino dell’Unione Europea per cercare lavoro in una realtà cosmopolita come quella londinese. Una scelta che si è rivelata ottima. Mi sono rapidamente integrato in una città che adoro.

Ci descriveresti il tuo attuale lavoro?

Dato che in Italia la mia professione era quella di disegnatore tecnico AutoCAD in ambito meccanico, al mio arrivo a Londra ho cominciato a mandare il mio curriculum a ogni agenzia di lavoro specializzata nel settore. Ipotizzando che la cosa fosse troppo ambiziosa, e ancora temprato dall’esperienza newyorkese, nel frattempo ho fatto domanda anche in diversi bar e ristoranti.

Invece, con mia grande sorpresa, dopo avere lavorato qualche giorno come “ricercatore di mercato” (ossia in un call center) e come consulente occasionale in un’azienda d’ingegneria marittima, sono stato chiamato a colloquio da un’Investment Bank in cerca di un impiegato temporaneo per un progetto di rinnovamento interni della durata di tre mesi. Inutile dire che lavoro per la stessa banca da quasi cinque anni.

“Nel mondo del lavoro anglosassone c’è più meritocrazia”. Verità o luogo comune?

Ovviamente s’intende “rispetto alla realtà lavorativa italiana”… Beh, direi sia una verità, e credo di esserne un buon esempio. Come ho accennato, sono entrato nel mio attuale posto di lavoro in qualità di aiutante temporaneo, avendo come unico compito quello di trasmutare disegni tecnici dalla versione cartacea a quella elettronica. Nei tre mesi della durata del mio contratto ho però attentamente analizzato il progetto, me ne sono sinceramente interessato, ho fornito le mie idee, i miei dubbi e i miei consigli, e questi sono sempre stati – con mia piacevole sorpresa – ascoltati e presi in considerazione.

Ho proposto di cambiare il sistema di gestione dei fogli di calcolo e dei piani di disegno: la mia idea è stata ritenuta utile ed è stata accolta con entusiasmo dai dirigenti. Al termine del contratto ero già incredibilmente maturato a livello professionale, e ben presto mi è stato proposto di entrare a fare parte dell’organico aziendale in maniera permanente.

Nei primi tre anni di impiego sono passato da semplice disegnatore AutoCAD a coordinatore di progetto. Io: un immigrato senza titolo di studio, con un inglese tutto fuorché britannico, senza una minima conoscenza della società anglosassone, in un’Investment Bank nella City di Londra. Se questa non è meritocrazia…

Dopo quasi cinque anni passati a Londra, qual è l’idea che ti sei fatto di questa città?

Londra è una città meravigliosamente cosmopolita, come New York. Entrambe infatti condividono la medesima fusione di diverse etnie, lingue, religioni, nonché contraddizioni. A differenza di New York, però, Londra non è stata concepita fin dalla sua nascita per essere una metropoli: il suo sistema di treni sotterranei è piccolo e impacciato, la sua planimetria non è divisa a scacchiera, le sue strade non sono numerate ma hanno nomi di conti e duchesse d’altri tempi. Questa particolare combinazione di elementi la rende a mio parere unica e affascinante.

Innanzitutto, alla prova pratica è impossibile conoscere completamente questa città. Ci sono talmente tante realtà locali che, se incontrassimo due persone residenti in diversi quartieri, ci descriverebbero inevitabilmente due città diverse. Inoltre, le etnie presenti sono più mischiate fra loro rispetto ad altre metropoli per la maggiore difficoltà di creare quartieri “propri”.

Questo spinge i londinesi ad avere una mentalità più aperta e ricettiva verso le opinioni e le usanze altrui, aggiungendo valore al “melting pot” della città e creando un’atmosfera incredibilmente ispiratrice e multiforme.

Il tuo blog, “Life of a Misfit”, è alquanto noto sul web, ed è evidentemente fatto con cura e passione. Cosa ti ha spinto a idearlo?

Prima di andare all’estero credevo di essere l’unico a non sentirsi a proprio agio nella realtà italiana. Inizialmente, ho creato il blog “Life of a Misfit” per tentare di esprimere quello che provavo, le sensazioni che mi avevano spinto a partire.

Soltanto in seguito ho scoperto che c’erano molte altre persone, in Italia come all’estero, che condividevano le mie opinioni: persone che, come me, hanno ideali, sogni e speranze per un’Italia diversa. Molti di loro vivono all’estero e leggono il mio blog perché in qualche modo sono passati per la stessa strada e hanno provato le stesse cose.

Altri, invece, sono residenti in Italia, e pur avendo l’intenzione di partire si trovano a convivere con una mentalità generale che non condividono: li ammiro moltissimo e mi danno quotidianamente una lezione di coraggio.

Infine, ci sono quelli che vivono nel Belpaese, ma sognano quotidianamente di lanciarsi in un’avventura all’estero, magari senza trovarne il coraggio. Lasciare il proprio paese così, senza sapere cosa si andrà a trovare, è un po’ come lanciarsi da un trampolino alto: a volte crediamo di non avere il coraggio, a volte basta una parola di conforto, altre ancora abbiamo soltanto bisogno di una piccola spinta.

Oggi, a trent’anni, ti senti più “stabilizzato” o ti sta tornando la voglia di partire e, magari, di trasferirti in un altro paese?

Devo dire di non avere sentito per niente il tanto temuto “salto” dei trent’anni. Forse perché mentalmente avevo già raggiunto quest’età da tempo, o forse perché gli occhi sono lontani dagli standard della società italiana e dalle insistenti richieste familiari che ti vorrebbero sposato ed accasato attorno a quest’età.

Qui la vita sembra essere più libera da certe barriere mentali, la gente non s’interessa troppo dei fatti altrui. Con un po’ di autoanalisi credo di potermi ritenere soddisfatto della vita che conduco: ho un lavoro che mi piace, frequento amici ai quali sono molto legato, e vivo in una città che mi riempie di stimoli. Se un giorno dovessi sentire che una o più di queste cose è venuta a mancare, o non dovessi più essere soddisfatto del mio stile di vita… Beh, probabilmente prenderei in considerazione l’idea di partire di nuovo.

Il mondo è grande e le possibilità infinite, e credo sia sbagliato sentirsi legati a un luogo contro la propria volontà: “casa” non è il luogo dove si vive o dove si è nati, ma quello in cui il cuore si sente a proprio agio.

Nonostante i recenti festeggiamenti per i suoi 150 anni, l’Italia è un paese in evidente crisi di identità e valori. Montanelli prevedeva un futuro brillante per gli italiani – inclusi quelli “in fuga”, bravissimi a suo giudizio nell’integrarsi nei paesi ospitanti. Ma non vedeva un futuro per l’Italia, priva di memoria storica e di un’autentica identità nazionale. Secondo te aveva ragione?

Credo che l’Italia sia una nazione molto giovane da un punto di vista istituzionale, e molto inesperta da un punto di vista democratico.

La mia idea è che purtroppo l’Italia non sia stata fatta dagli italiani: è stata fatta da torinesi, milanesi, napoletani, palermitani, ognuno legato alla propria realtà locale prima che alla propria nazione. Questo sentimento è vivo e sentito ancora oggi: non è raro per un italiano osservare lo Stato quasi come fosse un’entità sospetta, d’intralcio, a tratti ostile.

Manca la concezione di un’organizzazione superiore che possa gestire il patrimonio di un intero paese. Questo interesse per il personale – o, per meglio dire, questo “disinteresse per il collettivo” – si proietta sulle persone elette dai cittadini. Le quali, di riflesso, una volta giunte al potere, si fanno “i fatti propri” senza che i cittadini stessi le contestino – e come potrebbero, quando ne condividono la stessa mentalità, e dunque li ammirano? Per questo motivo la visione di Montanelli è a mio parere corretta: l’italiano è estremamente indipendente, e questo lo valorizza soprattutto all’estero – dove paradossalmente l’identità italiana assume davvero corpo – ma finché non saprà riconoscersi nel proprio popolo non sarà in grado di fidarsi nemmeno di se stesso.

Per concludere: che città (o paese) consiglieresti a un giovane che voglia fare un’esperienza all’estero di qualche mese?

La prima cosa che suggerisco, a prescindere dal luogo in cui si viaggia, è di portare con sé la volontà di osservare una cultura diversa e di impararne qualcosa. Molti italiani “medi” continuano la vita che facevano in Italia con tanto di ristoranti italiani, film italiani e amici italiani. Quella non è un’esperienza all’estero: è un’opportunità sprecata.

Detto questo, ogni paese è buono, basta identificare quel luogo che, per un motivo o per l’altro, cattura di più la nostra attenzione. Nel mio caso, la musica è stata un modo semplice e naturale per avvicinarmi al Regno Unito e immergermi nella sua affascinante cultura. Ma la musica è soltanto un esempio: se c’è passione e curiosità tutto è a portata di mano. In fondo, non dovrebbe essere tanto il paese ad affascinarci, quanto l’uomo e le sue idee.

Grazie Matteo, e buon proseguimento!
Link all’articolo originale: http://www.italiansinfuga.com/2011/04/21/un-%E2%80%9Cdisadattato%E2%80%9D-a-londra/

Considerazioni sull’Intervento in Libia

Proseguendo il post precedente, la seconda notizia d’attualitá destinata a finire nei libri di storia – e recentemente divenuta di tale peso dall’avere effettivamente oscurato terremoto, tsunami e fuga radioattiva in Giappone – é l’intervento Nato in Libia.
Di questa guerra (sarebbe questo il termine corretto) si possono dire tante cose: prima di tutto che é forse la piú veloce decisione di intervento militare che io abbia mai visto: per decidere di intervenire in Iraq si é discusso per anni ed anni, mentre Saddam andava avanti con i suoi amorevoli genocidi; quando si é infine deciso di intervenire si é fallito su molti fronti ed avuto successo su pochi. Per decidere di attaccare la Libia sono stati sufficienti pochi giorni: forse in questa occasione si é deciso di intervenire tempestivamente per evitare escalation di quel tipo? O forse la velocitá della caduta dei regimi di Tunisia ed Egitto ha portato a credere (probabilmente erroneamente) che anche in questo caso, con un piccolo aiuto esterno, il castello di carte sarebbe caduto come gli altri?
Per il momento la cosa certa é che le lamentele interne all’Europa sono inversamente proporzionali alla velocitá della decisione stessa.

Io credo che per un cittadino appartenente ad una democrazia di stampo occidentale sia certamente facile schierarsi con chi sta bombardando Gheddafi; dopotutto stiamo parlando di quello che é probabilmente il piú violento dittatore del mondo arabo: un assassino che paventa senza vergogna la propria megalomania, che ha armato attentatori, protetto assassini, eliminato dissidenti. Non gli sono serviti piú di due minuti per decidere di bombardare gruppi di civili che manifestavano pacificamente contro di lui, né gli sono servite tante consulenze per decidere di andare a sbausciare come un cane su internet, inneggiando ad un fantomatico “onore del popolo Libico” nonché alla santitá spirituale della sua persona (modesto).

Eppure molti ritengono che l’intervento in Libia sia scorretto, e per i piú disparati motivi.
Un esempio degno di nota é la Germania che, forse ancora sbollendo dagli eventi della seconda guerra mondiale e fortemente animata da un movimento pacifista, ritiene sbagliato fare qualcosa di piú che imporre sanzioni amministrative o, tradotto in altre parole: “Lasciamo che i libici ottengano la loro democrazia o periscano tentandoci”. Non lo ritengo necessariamente sbagliato, ma per lo meno opinabile. E’ un po’ come vedere dalla finestra di casa il vicino picchiare la moglie: é piú pacifico intervenire o chiudere la tenda?

Tra le opinioni dei civili europei che si oppongono la guerra, ci sono quelli che dicono: “Eh ma gli Stati che intervengono in Libia sono spinti da interessi!” (ma va?! Hai mai visto una guerra “disinteressata”? O una decisione politica presa “perché non sapevamo cosa fare”?)
Qui chiaramente sono in disaccordo perché, tirando il ragionamento per gli estremi, anche chi va a fare volontariato lo fa per sentirsi fiero di se stesso, ma ciò non rende l’azione meno “utile”.
Non é un segreto nemmeno per i francesi che Sarkozy stia utilizzando la battaglia in Libia per riacquistare la fiducia dei cittadini (ai recenti sondaggi é stracciato dai due partiti avversari) utilizzando il movente morale del salvataggio dei poveri civili bombardati dal dittatore. Ma non si puó negare la rapiditá, la fermezza, e la coordinazione, ed infine l’utilitá di un intervento simile, con un appoggio marginale da parte degli Stati Uniti. Questo é un intervento voluto e realizzato dall’Europa, il piú rappresentativo (l’unico?) degli ultimi 60 anni. Se dovesse avere successo, e la democrazia dovesse instaurarsi in Libia, l’esempio per tutti gli altri dittatori del mondo arabo sarebbe impagabile; economicamente parlando l’Europa potrebbe finalmente fare commercio con stati del Nord Africa senza sporche dittature di mezzo e senza paura di ritorsioni terroristiche: ne godrebbero dei benefici generazioni a venire.

Per quanto riguarda l’Italia, come sempre quando c’é un conflitto a fuoco, essa si comporta come la mignotta d’Europa: ossia assume un ruolo minore e non si schiera apertamente con nessuno (per lo meno fino a che non ci sará un chiaro vincitore). Frasi come “L’Europa non deve esportare la democrazia. Non sarebbe rispettoso dell’indipendenza del popolo libico”, o “Non ho chiamato Gheddafi, non lo voglio disturbare” racchiudono tutta la mia delusione per l’avere i natali in un paese dalle idee politiche stabili come due nonne che si tengono per mano su di una pista per il pattinaggio sul ghiaccio. Se l’intervento Nato avrá successo si dirá che l’Italia ha avuto un ruolo chiave nel liberare dalla dittatura un popolo soppresso fornendo basi ed aerei; se invece la spunterá Gheddafi (e non é impossibile: é sufficiente che esca una foto di un ospedale centrato per sbaglio da una bomba alleata, o che qualche ribelle libico venga visto a simpatizzare con Al-Qaeda, per fare retromarcia) allora si dirá che l’Italia era “costretta” a fornire le basi per via degli impegni Nato ma che ha sempre espresso amicizia nei confronti di un uomo saggio come Gheddafi.
Comunque tutte le mie considerazioni al riguardo sono sprecate e sono perfettamente raccolte in sei minuti di tempo dal piú recente intervento di Marco Travaglio sulla vicenda.

Prendere la libertá personale di estinguere vite altrui é deplorevole, e versare sangue per fermare altro sangue é certamente discutibile. Ma esiste la possibilitá di evitare ulteriori cadute di civili senza intervenire militarmente? Forse si potrebbe stare zitti ed aspettare che Gheddafi prosegua la sua dittatura fino a morire di vecchiaia e, all’avvento del figlio, sperare che questo decida di instaurare una democrazia? O che al passaggio di potere si possa intervenire in maniera piú diplomatica? Forse. Ma i libici stessi non hanno speranze in questo senso, l’hanno dimostrato loro stessi cavalcando l’onda delle proteste di Tunisia ed Egitto. Con la consapevolezza di chi é il dittatore in carica deve venire anche la realizzazione dell’entitá delle conseguenze di una eventuale rivolta: se non altro la Libia ha fatto la sua scelta, e si sta prendendo responsabilitá per questo. Ma l’Europa non é meno responsabile: ha fatto nascere Gheddafi e l’ha messo al suo posto e l’ha nutrito e sfamato per gli ultimi trent’anni.

Considerazioni sull’Energia Nucleare

Ci sono periodi nei quali i giornali non sanno veramente che notizie andare a pescare pur di vendere qualche copia. Non é il caso di queste settimane, dove gli eventi di scala internazionale (tutti destinati a finire nei libri di storia) hanno decisamente lasciato sia i giornalisti che gli amici da bar con un vasto ventaglio di argomenti da discutere ed analizzare.

Abbiamo la tragedia giapponese che si sta consumando sotto ai nostri occhi giorno dopo giorno, e le riflessioni che ci fornisce sono tantissime: la prima é che la natura é una forza incredibile e spietata che non guarda in faccia a nessuno.
Sappiamo anche che i giapponesi sono un popolo con un grandissimo spirito di patriottismo e – gli storici contemporanei lo sanno bene – che ha sempre dimostrato di saper uscire dai disastri umani o naturali con un ancora piú forte spirito di progresso. L’Economist stesso, con il tipico spirito d’analisi inglese, dice giustamente che “ove c’é gente che muore ci sará qualcuno che quantificherá il danno in denaro” (infatti l’hanno fatto loro) ed ipotizza anche che questa tragedia potrebbe fornire alla stagnante economia giapponese la spinta di cui aveva tanto bisogno per ripartire: i cittadini spaventati e legati da una tragedia come un immenso terremoto, un’alluvione senza precedenti, ed una minaccia nucleare, non hanno paura a prestare denaro ad un governo al quale si stringono attorno e verso il quale nutrono fiducia (almeno loro); ed un paese da sempre basato sul commercio interno non impiegherá molto tempo a rigenerarsi fino a tornare al punto di partenza, come farebbe il corpo umano con una ferita. Questo é certo almeno quanto il fatto che la cittá di Fukushima verrá ricostruita piú in fretta de L’Aquila (10 mesi soltanto per iniziare le opere di ricostruzione).

Il disastro alla centrale nucleare di Fukushima ha anche riaperto in tutto il mondo il dibattito su come l’energia nucleare possa essere tanto utile quanto pericolosa; questo a mio parere a ragione, dato che parliamo di un’energia sviluppata prima per scopi militari e poi per uso domestico.
Dopo l’incidente in questione Angela Merkel ha provveduto a tempo di record a chiudere sette vecchie centrali, che soltanto pochi mesi prima erano pronta ad estendere la data di pensionamento di altri 10 anni (potere degli indici di gradimento vicino alle elezioni).
A questo si sono accodati gli Stati Europei, e persino l’America, che oramai da tempo stanno virando la mentalitá in fatto di energia verso risorse rinnovabili e meno rischiose. Dico “quasi” perché c’é l’eccezione di un paese in Europa (almeno geograficamente) che, come uscendo dritto dagli anni 70, paventa a spada tratta che il futuro é dell’energia nucleare, che le centrali sono sicurissime, che non c’é motivo di preoccuparsi – piú o meno le stesse cose che si dicevano prima di Chernobyl.
Tutte ció che produce energia é potenzialmente pericoloso, il discorso sarebbe identificare i rischi e concordare sul buon senso nell’accettarli, non nel negarne l’esistenza, altrimenti noi cittadini finiamo con il pensare (malignamente?) che i politici che pubblicizzano il nucleare hanno interessi di altro tipo dietro alla costruzione delle centrali.

Dopotutto un referendum in Italia c’é giá stato, e mi sembrerebbe incredibile partire in quinta con la pianificazione e la costruzione delle centrali senza prima interpellare i cittadini per constatare se hanno cambiato opinione; ma dato che ora il nuovo referendum ci sará (e probabilmente il nucleare passerá), sará divertente capire quale regione italiana vorrá una centrale nucleare vicino a casa, quando per un inceneritore si fermano treni a rivoltano cittá. E poi, con quali soldi esattamente si vogliono costruire queste nuove centrali? E poi, se le prime centrali sbucheranno tra vent’anni, siamo sicuri che tra vent’anni il nucleare sará ancora il futuro? E l’Italia non era un paese ad alto rischio sismico?

Nel Regno Unito ci sono al momento diciannove centrali nucleari attive, e queste producono il 20% dell’elettricitá nazionale; ma la mentalitá generale sta rapidamente cambiando: il parlamento scozzese ha giá messo in chiaro che non verranno costruite nuove centrali nel suo territorio, e si impegna a smantellare le centrali esistenti entro il 2023 per diventare “nuclear-free”. Le cose non vanno diversamente in Galles, dove un progetto per una centrale di nuova generazione é stato rispedito al mittente dall’assemblea governativa, e lo stato costituente ha dichiarato che ogni progetto per nuove centrali verrá rifiutato.
Un sondaggio del 2005 dell’agenzia britannica Deloitte (il piú grande fornitore di servizi professionali al mondo) ha evidenziato che soltanto il 36% dei cittadini britannici é favorevole al nucleare, mentre il 62% vorrebbe che il governo si impegnasse maggiormente a fornire energia prodotta da risorse rinnovabili.
Tutte queste cose spingeranno il governo a rivedere le proprie politiche in fatto di nucleare, e man mano che il tempo passa e nuove tecnologie vengono scoperte, credo sará evidente a tutti che il rinnovabile é il prossimo “passo” nel cammino dell’evoluzione dell’uomo; tutto sta nell’identificare quando questo passaggio sia effettivamente fattibile. Per il momento il governo britannico incentiva i privati a generare la propria elettricitá, ad esempio installando pannelli solari sui tetti delle proprie case (con aiuti statali), ed entro il 2020 si é impegnato a produrre almeno il 15% dell’energia totale tramite fonti rinnovabili.

Per questo saltare ad occhi chiusi sul carro del nucleare senza prima analizzare bene i pro ed i contro mi sembra avventato ed irrazionale – specialmente in un paese che ha la fortuna di avere molto piú sole del Regno Unito.

La Serata Aziendale di Biliardo

E’ un monotono giovedì pomeriggio quando nell’ufficio si insinua – silenziosa ma perniciosa come un’infezione batterica – un’email della direzione che ci porta la notizia dell‘annuale torneo di biliardo.

Immediatamente sguardi fugaci si rincorrono da una scrivania all’altra, palline di carta con messaggi segreti si vedono scagliate da una sponda all’altra dell’ufficio, guanti bianchi di sfida vengono estratti dall’ultimo cassetto della scrivania: l’intero dipartimento é in fibrillazione.
Vengo così a scoprire l’esistenza di una consolidata storia di guerre, amori, tradimenti, lacrime e sangue, che si consumano ogni anno attorno a suddetto torneo; inutile elencare quante diatribe centenarie – che risalgono a quando i nonni dei nonni erano colleghi nella stessa azienda – vengono rinfiammate dallo scoccare della fatidica data.

Personalmente estraneo alle vicende mi disinteresso immediatamente della tediosa epistola per proseguire nel mio lavoro, fino a quando il buon responsabile della manutenzione passa casualmente di fronte alla mia scrivania per chiedermi se fossi interessato ad unirmi al loro team della disperazione, al cui rispondo gentilmente che avrei preso più volentieri la scabbia norvegese che l’invito a partecipare, ma ai manutentori non interessa: “Ah, ok, comunque abbiamo dovuto iscriverti senza dirtelo perché altrimenti non potevamo fare la squadra che ci danno la birra gratis!!!111!!” (ah ecco…).

Allora, per chiarire: la mia riluttanza nasce dal fatto che la mia esperienza con il biliardo é molto, molto limitata. Dovete sapere che anni fa io ed i miei amici eravamo soliti passare le calde domeniche d’estate in una contumace sala giuochi di Bergamo, comodamente allocata accanto ad un bordello cingalese – del quale la sala stessa faceva da giunonica succursale, quando si dice un business basato sul far entrare cose in buca – e pertanto so di per certo che una preparazione a base di palle e mazze non può avermi dato la preparazione sufficiente a competere con gli snookers britons addestrati fin da piccoli a fare il centro perfetto con venti pinte di birra Samuel Adams Triple Bock in circolo; per questo ed altri motivi ho in tutti i modi ho cercato di sottrarmi ad una serata dalla quale potevo soltanto aspettarmi il peggio.

Comunque, volente o nolente, per evitare l’ira di pericolosi manutentori britannici assetati di birra, giunge la sera del fatidico evento e mi presento all’ingresso della sala da biliardo portando con me tutti i sintomi tipici da ansia da prestazione (sudorazione fredda, palpitazioni ventricolari, desquamazione delle pelle, contrazioni pre-parto, e così via) ed un tomo di quattrocento pagine intitolato “Pool for Dummies” imparato a memoria la sera precedente. La sensazione di panico comunque dura poco: all’ingresso nel locale vengo immediatamente accolto da una manfrina fin troppo familiare: banchieri ultramiliardari si tengono saldi al bancone per non cadere tra le grinfie della malvagia gravità, consulenti finanziari cantano e ballano ad occhi chiusi rivolgendosi ad un ente superiore (presumibilmente il Dio denaro), pezze umane simili ad impiegati giacciono collassati sui divanetti dopo una perdita collettiva di conoscenza, e infine, come potrebbero mancare le inestinguibili segretarie ubriache che già stanno cantando le osterie sopra i tavoli da biliardo con le scarpe col tacco saldamente strette in mano? Ah, mi sento quasi in famiglia.

Inteso che la serata non ha preso la piega che mi aspettavo, faccio per ritornare sui miei passi e strisciare verso la più vicina stazione della tube, ma purtroppo la mia presenza é già stata rilevata dalla terribile amministratrice delle relazioni pubbliche; la scheletrica megera si avvicina a velocità lenta e costante fluttuando a due centimetri dal suolo come fosse spinta su pattini a rotelle. Cerco disperatamente una via di fuga – o in alternativa un’arma contundente tipo scacciacani – senza successo, e mi arrendo così al mio destino quando, al fulmicotone, vengo salvato dal capo della manutenzione (!) il quale si fionda dal cielo offrendomi una stecca che abbraccio senza alcuna esitazione. Vedo l’amministratrice struggersi in lacrime amare vedendosi tradita con una che probabilmente scambia per sua sorella, ma di lì a poco sarà già sul ciglio della cucina marpionando uno lavapiatti kazako romanticamente intento a cambiare l’olio delle patatine fritte, quindi c’é poco di cui preoccuparsi.

Grazie al fido manutentore mi trovo fiondato nella zona fisicamente sana della serata (sul mentalmente non saprei dire): un’isola felice circondata da un mare di alcool che si rivela essere un paradiso fiscale di giovani giocatori d’azzardo, un’autentica cricca clandestina riunita attorno ad un tavolo da biliardo risalente probabilmente alla nonna del Duca di Wellington. Incontro lo sguardo di vetro dell’insospettabile head receptionist (donna riconosciuta da tutti in azienda per suggellare perfettamente l’icona della stronza suprema) che si rivela ora essere anche la gestrice delle puntate d’azzardo: sputa nel portacipria e si guarda per un attimo allo specchio sistemandosi il make-up, poi mi volge uno sguardo di disprezzo e decanta: “Sei contro Katya”. Poi fa partire un altro sputo e torna sistemarsi il trucco mentre con l’altra mano raccatta i soldi delle scommesse

Faccio così la conoscenza di “Katya”, giovane promessa del tavolo verde, che mi coinvolge in una sfida senza esclusioni di colpi; é una battaglia agguerritissima e senza quartiere, dove tutte le debolezze dell’avversario vengono messe allo scoperto – nel caso di Katya vengono allo scoperto anche altre cose – e nel corso della partita più volte mi convinco di essere ad un passo dalla vittoria, ma chiaramente é tutta una trappola: questo perché, povero ingenuo, non posso sapere che “Katya”, segretaria polacca di discendenza sovietica, é abilmente addestrata nell’arte dello spionaggio internazionale, addestrata da una astuta nonna a sua volta infiltrata tra i ranghi del Fuhrer in tutte le tattiche più subdole per adescare il “cliente” facendogli scommettere tutti i soldi, distraendolo abilmente mostrando debolezze di facciata (quella di dietro), e stracciandolo sul finale: é un’autentica macchina da guerra con un cervello da calcolatore elettronico, ed ha chiaramente sempre avuto la vittoria in tasca.
Di lì a pochi minuti sono al verde e travolto dall’onta del disonore.

Mi fiondo in bagno per nascondere la testa nella tazza del water dalla vergogna, ma vengo fermato dal tizio delle pulizie – un analfabeta botswano che mi sorride mostrandomi denti dai colori dell’autunno – il quale mi fa capire a gesti che la porta é guasta: un problema con la giuntura le impedisce di aprirsi completamente e, per quanto si tenti e ritenti, a metà della corsa uno scatto violento, quasi legnoso, ne ferma l’avanzamento. Incline a risolvere il mistero – per risollevare la poca autostima rimasta integra – m’ingegno per svelare l’arcano, fino a che vedo la luce: “Ecco! Qualcuno é in qualche modo riuscito ad infilare uno spazzolone mocio nell’angolo della porta!“. Così mi inginocchio, afferro il mocio, e tiro con forza. Sento un’acuta voce esclamare “Ahi!!”.
Scopro con orrore che si tratta nuovamente di lei, l’amministratrice delle relazioni pubbliche, collassata sul pavimento e presa a sportellate in faccia da almeno due ore mentre era accasciata senza sensi sul pavimento di una cabina. Nel bagno degli uomini.
Decido di tornare a giocare.

Arrivo in tempo per scoprire che l’apice della civiltà e del buongusto british é stato finalmente raggiunto: Infatti é scoppiata una rissa. A quanto pare qualcuno ha scoperto che uno dei membri della squadra vincente ha partecipato, trentotto anni fa circa, ad una partita professionale di biliardo – cosa non ammessa ad una sfida aziendale chiaramente amatoriale – facendo alterare tutti i partecipanti e sopratutto infuriare la head receptionist che minaccia di cambiare la direzione degli sputi.

La serata viene fortunatamente salvata dall’irruzione di una virago di 140 chili – associata in qualche modo al locale – che sbatte fuori a calci nel culo tutti i presenti – coscienti ed incoscienti – e con il colpo di una mano abbassa la serranda che romanticamente ospita un cartello con la frase “Fuck off – We’re closed”.

La serata si conclude quindi senza vincitori né perdenti e, mio malgrado, devo dire che a tratti mi sono quasi divertito (forse che sto diventando british anche io?!).
Ora devo soltanto lavorare un attimo su quella tattica segreta dell’ingannare l’avversario per consegnarmi la vittoria…  cominceró rassodando i glutei.

L’Incendio della Libertá

Le idee sono carri armati. Invisibili, silenziosi, impercettibili, eppure in grado di schiacciare qualunque dittatura si pari loro davanti.
La cosa curiosa é che rivoluzioni epocali nascono sempre da una scintilla: una microscopica, innocua scintilla che può scaturire da un giovane morto per strada, da un discorso tenuto su di una scatola di legno in una piazza, da un poster su un muro: attecchisce sulle persone, le infiamma e si propaga attorno, lasciandosi alle spalle qualcosa che non sarà mai più come prima.
Quello al quale stiamo assistendo in Nord Africa é l’incendio della libertá. Incontenibile, inarrestabile, selvaggio e spaventoso; ma – come tutti gli incendi – anche molto affascinante.

Tutto é cominciato in Tunisia (anche se alcuni ipotizzano che la scintilla sia stata accesa a sua volta dagli eventi in Asia: se così fosse, si potrebbe proprio dire che un battito d’ali di farfalla in India ha causato un uragano in Tunisia), e le fiamme hanno di lì a poco mangiato la foresta della dittatura, malata, stanca, che ora lentamente e senza paura rinascerà dalle proprie ceneri. Ci metterà anni, generazioni,  ma il primo passo é fatto.
Dalla caduta di Ben Ali non é passato molto tempo che l’incendio si spostasse in Egitto: per abbattere la dittatura di Mubarak sono stati sufficienti diciotto giorni (un soffio, se si pensa che regnava da trenta anni).

La faccenda si sta facendo un pochino più complicata in Libia.

A parte che – fatemi imbrodare un attimo – avevo già intuito giorni prima che la Libia sarebbe stata la prossima della lista, e l’avevo detto. I libici poi sono sotto la tirannica dittatura di Gaddafi (come lo chiamano fuori dall’Italia) da quaranta anni: non accodarsi all’ondata di proteste adesso sarebbe come una vacca che va a fare un pisolino fuori dal negozio del macellaio.
Certo, Gaddafi non é esattamente uno che é felice di abbandonare il potere: le agenzie internazionali riportano che ha eliminato un numero di manifestanti che varia dai mille a diecimila; la residenza del dittatore é coperta da cecchini con ordine di fuoco libero sui manifestanti; aerei militari sono stati mandati a sganciare bombe sul pubblico, ed infine disperati immigrati africani vengono corrotti con una promessa di $1,900 dollari per ogni libico che ammazzano (voi immaginate cosa significa essere immigrati in Libia in questo momento: uno di questi é stato fatto a pezzi a mani nude per strada). Ci sono certi filmati in giro per la rete che testimoniano queste ed altre barbarie, che le TV di molti paesi democratici mai avrebbero il coraggio di mandare in onda (magari ai lettori con lo stomaco forte consiglio un’occhiata). Al confronto Mubarak era un cioccolataio svizzero.

In un delirante discorso (nel quale sbausciava come un cane idrofobo) Gheddafi sostiene che tutto quello che vuole é il bene della Libia, che é un santo, e che se deporrà l’incarico sarà solo quando sarà martire della patria. Non si può dire che sia un baluardo della coerenza: per fare chiarezza, é come se un capo di Stato usasse i soldi dei contribuenti per fare fuori i contribuenti stessi. Stento ad afferrare il punto dove si fa il bene della Libia in tutto questo. Ah, aspetta: non c’é.

Non bastasse questo, il cammelliere del deserto – come fece Mubarak prima di lui – ha anche tagliato l’informazione: paese rimosso da internet, telefoni scollegati, ingresso negato a tutti i giornalisti. Grazie al cielo l’informazione nel 2011 é come l’acqua tra le rocce.

Dai, facciamo i cattivi: ripensate al discorso di Gaddafi e spostate lo sguardo più a Nord, non notate molte similitudini di ragionamento con un certo suo amico?  A parte che, a voler vedere, anche l’Italia é sotto dittatura morbida da venti anni, ma Berlusconi per lo meno é stato più furbo: ha cominciato da subito controllando l’informazione – soprattutto facendo vedere in TV altri tipi di bombe – poi ha silenziosamente cambiato leggi, corrotto giudici, rubate aziende avversarie, tenuto rapporti con mafiosi. In Libia tutti sanno chi sia realmente Gaddafi: eppure quanti italiani, dopo venti anni, credono ancora che Berlusconi sia un brav’uomo che vuole governare il paese ma sia costantemente ostacolato da una disonesta opposizione?

Alla notizia del massacro dei manifestanti in Libia, come con quelli egiziani, l’Europa ha sollevato all’unanimità parole di sdegno verso il crudele dittatore. D’accordo, non hanno fatto nulla in venti anni per intervenire — il che reitera il mio pensiero che i popoli finiscono sempre col salvarsi da soli — ma per lo meno i diplomatici degli Stati cosiddetti democratici hanno fatto il loro lavoro, auspicando introduzione della democrazia in Stati schiacciati dalla dittatura per decenni.
Guardate bene: Stati sotto democrazia augurano la democrazia a Stati sotto la dittatura: sembra quasi avere un senso, vero? Ed indovinate chi é stato l’unico Stato europeo ad avere augurato a Mubarak di rimanere in carica?
“Il governo italiano spera che il presidente
Mubarak continui come sempre ha fatto a governare con saggezza e lungimiranza…” ha dichiarato il Ministro degli Esteri italiano Frattini.
Poi, mentre gli altri Stati membri condannavano la mattanza dei manifestanti libici, Berlusconi dichiarava: “Non ho chiamato Gheddafi, mi sembra impegnato e non lo voglio disturbare”. Frase recepita in Europa come: “Quando avrà finito di bombardare i suoi cittadini e avrà ripreso il potere lo chiamerò per chiedergli come sta”.
Infine – ciliegina sulla torta – quando hanno fatto notare a Berlusconi che i dittatori che ammazzano i manifestanti si disturbano eccome e si criticano anche, ecco che Berlusconi finalmente condanna la violenza, seguito a ruota dal – spiace dirlo – fantoccio ministeriale Frattini, quat’ultimo aggiungendo anche: “L’Europa non deve esportare la democrazia. Non sarebbe rispettoso dell’indipendenza del popolo libico”. Eh beh certo, quindi bombardare i cittadini é troppo, ma un po’ di dittatura fa bene: evidentemente é tutto in linea con la politica interna italiana.

Anche i giornali italiani, per quanto alcune eccezioni ci siano sempre, fanno le solite galline del pollaio.
Nel Regno Unito il Ministero degli Esteri ha criticato molto duramente la violenza e proposto durissime sanzioni sulla Libia, ma i giornalisti britannici non ci hanno pensato due volte a criticare a sua volta il Ministero: il Times cartaceo pubblicava ieri a pagina 9 un completo resoconto degli interessi commerciali e militari del Regno Unito in Libia, demandando l’interruzione immediata della fornitura di armi e dei contratti petroliferi della BP (magari molti britannici preferirebbero gelare di freddo che scaldarsi con il sangue dei libici). Cameron ha ripiegato sostenendo che in linea teorica non é ipocrisia auspicare la democrazia e vendere armi, perché anche Stati piccoli che non sono in grado di costruire le proprie armi di difesa hanno il diritto di acquistare armi, ma che la situazione in Libia é andata troppo oltre e servono immediatamente misure severe.
Perché i giornali Italiani non sputtanano Frattini invece di limitarsi a riportare “Frattini dice questo, Frattini dice quello”? Perché non pubblicano un bel tabulato con il resoconto completo delle attività italiane, commerciali e militari, in Libia? Perché tanta paura a rischiare contratti con Stati corrotti e sanguinari? C’é forse paura che l’Italia possa guadagnare consensi in Europa?
Invece le principali preoccupazioni di giornali e politici sembrano (in ordine): la fuga in massa (praticamente certa) verso l’Italia degli immigrati libici alla caduta del regime; la salute degli italiani rimasti bloccati in Libia (gli altri possono morire); il mantenimento dei contratti di favore per l’estrazione del petrolio in Libia.

E poi, altra cosa: come può Frattini dire che l’Europa non deve esportare la propria idea di democrazia? Ma se sono proprio gli Stati del Nord Africa a volere la nostra democrazia (oddio, non la nostra intesa come italiana: quella Europea).
E’ finito il tempo in cui pochi eletti utilizzavano la religione islamica per lobotomizzare i propri cittadini creando il “mostro” dell’occidente: Internet sta aprendo gli occhi al mondo. Questa povera gente, ingannata per anni, si sta svegliando per scoprire che il mostro che ha temuto per decenni ce l’aveva proprio in casa: per questo protestano con tanta rabbia, da un giorno all’altro; altri dittatori ancora cadranno come sono caduti Ben Ali, come Mubarak, e come cadrà presto Gaddafi, che lo vogliano o meno. Verranno tutti mangiati dal fuoco della democrazia; altro che Jihad.
Ho soltanto le mie riserve su Ahmadinejad: quella é una vecchia volpe e sono curioso di vedere cosa fará quando gli andranno a scuotere i cancelli di casa.

Per Berlusconi invece, lasciamo perdere: come dice giustamente l’Economist, i primi ministri italiani dell’era contemporanea ci hanno regalato spettacoli già straordinari: dai processi ad Andreotti per mafia, alla latitanza di Craxi per sfuggire alla galera, ai processi di Berlusconi per corruzione e prostituzione minorile: c’é davvero poco da far pensare che gli italiani siano poveri cittadini bloccati sotto un dittatore; direi che a loro piace proprio cosí.

Goodbye Nokia

Vorrei parlare per una volta di tecnologia, dato che da queste parti non se ne parla mai.
Questo per esprimere le mie considerazioni su una notizia letta stamani, che sicuramente sarà passata inosservata a molti, ma che ha lasciato il sottoscritto alquanto stupefatto: Nokia ha siglato un accordo con Microsoft per installare Windows Mobile 7 (una versione ‘slim’ del recente Windows 7) come sistema operativo principale per i suoi futuri dispositivi portatili.

Certamente non si tratta di una notizia che potrebbe suonare come epocale; non fosse altro che ha permesso al sottoscritto di realizzare di colpo quanto il mercato del mobile (inteso come ‘telefonia mobile’ – non la Semeraro) sia radicalmente mutato in recenti anni. In particolare un grafico pubblicato sull’Economist mostra chiaramente come Nokia stia effettivamente colando a picco, anno dopo anno: questo perché al tavolo in cui la faceva prima da padrone siedono ora grassi commensali tra i quali Sony, RIM (Blackberry) e soprattutto Apple. Proprio Apple, infatti, dal lancio dell’Iphone nel 2007, ha letteralmente sbancato tutti: dopo tre anni di vita il suo smartphone porta a casa più della metà dell’intero fatturato dei dispositivi portatili immessi sul mercato. Questo é ancora più sorprendente se si pensa che questo avviene con un singolo prodotto (quanti diversi tipi di telefoni vengono prodotti soltanto da Nokia?).
Con dati del genere é evidente che Apple é riuscita a proporre un prodotto che ha reso obsoleti tutti gli altri, anticipando il movimento di un mercato giovane e veloce; un po’ come se Nokia si fosse risvegliata in un campo di fiori nel mezzo della corsa campestre che stava vincendo.

Nokia stessa però é appena uscita da un periodo turbolento, conclusosi con l’assunzione di un nuovo boss (sorpresa, sorpresa: ex-direttore del Business Division di Microsoft) il quale ha recentemente rilasciato un comunicato, sincero ed inquietante al tempo stesso, nel quale informava i propri dipendenti che é venuto il momento di un ‘leap of faith’ (un atto di fede) paragonando la compagnia ad una piattaforma in fiamme dalla quale si può soltanto scendere; si spera non si riferisse a se stesso.
Il solo fatto che Nokia abbia realizzato di non avere altra scelta se non adottare un software esterno per i propri telefoni é semplicemente rivoluzionario, considerando che parliamo della compagnia che ha consegnato il primo telefono cellulare a mezzo mondo evoluto: evidentemente la compagnia stessa ha convenuto che non é in grado di fornire un software di pari passo con le sempre più esigenti richieste dei suoi utenti.
Nokia ha però ancora una dote innegabile: l’esperienza nel campo dell’hardware (non é un caso che ogni volta che si rinviene una bomba in un aeroporto questa sia collegata ad un cellulare Nokia, é la scelta numero uno del terrorista informato).
Teoricamente, da questo punto di vista, Il fatto che Nokia si sia decisa ad abbandonare lo sviluppo di software, ed a concentrarsi sul solo Hardware, dovrebbe garantire un’ancora più alta qualità del prodotto finale, mentre dall’altro lato Microsoft é sicuramente un temibile concorrente quando si parla di sistemi operativi (seppur questo non sia esattamente provato nel campo dei telefoni cellulari).
Tuttavia qualcuno informato saprà che sul mercato c’é anche un terzo software operativo per smartphones: Android, il geniale sistema open-source di Google. Qua i commenti si dividono: molti infatti sostengono che Nokia avrebbe dovuto adottare Android ed usufruire di un mercato già affermato per riprendere terreno su Apple, piuttosto di affidarsi ad una compagnia certamente già “rodata” ma nuova allo specifico mercato della telefonia mobile. Questa scelta sembra giustificabile se si pensa ad un eventuale target a lungo termine, o altrimenti criticabile se si pensa che il nuovo direttore di Nokia avrebbe potuto agire come cavallo di Troia per Microsoft che ha ora totale controllo sul software dell’ottava più redditizia ditta al mondo (la prima non americana).

Pensate ora al commento che ho messo nella mia ultima parentesi: Nokia é il primo brand globale non americano.
Come europei questo dovrebbe farci sentire fieri, non fosse altro che ora i prodotti Nokia diventeranno de facto metà americani; ma questo conduce ad un’altra riflessione: com’é che ogni volta che l’Europa riesce ad essere a capo di un mercato di un determinato settore (o anche prodotto) questo viene puntualmente reinventato e migliorato da qualche ditta americana che poi la fa “sua”?
Com’é che la stragrande maggioranza dei brand di portata globale sono sempre americani? Che fine hanno fatto Alcatel, Ericsson, Siemens in questa guerra per il controllo del mercato degli smartphones?
Forse la domanda si potrebbe espandere, rivolgendola piú pioneristicamente ad un mercato giovanile: Se Mark Zuckerberg fosse nato in Europa, avrebbe lo stesso creato Facebook? La mia risposta é: di sicuro non cosí facilmente.
Questo, secondo me, é il motivo per cui l’Europa finisce sempre per calarsi le braghe agli americani: gli americani hanno una concezione del business molto piú flessibile, semplice, innovativa e stimolante. Commettono errori senza paura e ne ottengono in cambio l’intuizione per reinventarsi e proporsi ad un mercato globale. L’Europa ama essere conservatrice e ponderare mille volte una decisione: si potrá asserire che meno persone finiscono sul lastrico, ma ancora meno saranno quelle che hanno successo.
Se l’Europa riuscisse a rubare all’America anche solo un briciolo della mentalitá imprenditoriale di Silicon Valley, aziende come Nokia non avrebbero certamente bisogno di rivolgersi oltreoceano per rimanere aggiornata sui trend globali, tanto meno per sviluppare un sistema operativo.